Luoghi non luoghi
Qualche nota introduttiva sulla mostra fotografica di Enzo Tedeschi.
Ogni artista, qualunque sia l’arte praticata, non deve ripetere quello che altri hanno già fatto e, soprattutto, quello che fa non deve farlo male. Può e deve, invece, per onestà verso sé e verso i fruitori delle proprie opere, offrire la testimonianza della propria originalità, come dono di novità al proprio tempo, così da entrare nell’autentica contemporaneità.
Note come queste, preliminari ad ogni rapporto con l’arte, possono valere per disporci ad entrare in dialogo con l’opera fotografica dell’isontino Enzo Tedeschi, che qui si fa testimone di una realtà/irrealtà posta sotto la sigla “LUOGHI NON LUOGHI”.
In questi suoi lavori in ‘bianco e nero’ – il che non significa rigido mantenimento di un linguaggio tradizionale, dato che potrebbe essere forma di resistenza al sempre maggiore potere dominante delle ipertecnologie – l’Artista mostra la sua novità: non nella dimensione della ‘mimesi’, ma in quella, pur vagamente onnicomprensiva, cosiddetta ‘concettuale’, autonomo prodotto creativo della mente.
Potremmo dire che per questa via, forse meno facile da percorrere da parte del fruitore, si possa intendere il lavoro artistico di Tedeschi. E’ autoreferenziale? A parte la possibilità di equivocarne il significato, occorre evitare la presunzione d’intendere la realtà di certi interiori vissuti dell’artista, e, cercando piuttosto di intuire il rapporto dell’Artista col proprio ‘immaginario’, che lo induce a produrre personalissime ‘immagini’ che chiedono di mostrarsi.
C’è, infatti, in ogni artista un personale ‘in exitu’ delle forme che vogliono mostrarsi per essere partecipate, tanto esteticamente quanto culturalmente. Ed, appunto, in modo culturalmente contemporaneo è da leggersi il titolo dato a questa mostra: “LUOGHI NON LUOGHI”.
Possiamo proporre un possibile percorso per l’intelligenza di questa mostra di Enzo Tedeschi, che dall’ideologico-culturale conduca all’estetico, senza dimenticare il riconoscimento della maestria tecnica del suo fare, del ‘da me fatto così”. E questo a partire da ogni figura/fictio qui messa in campo: 1) la presenza di uno ‘spazio’ indefinibile; 2) le ‘geo-metrie’ dai chiari riferimenti simbolici; 3) le ‘lettere’ di un alfabeto da decifrarsi come scrittura ‘altra’, che vive di alfabeti altrettanto simbolici, se non anche esoterici; 4) le inquietanti ‘ombre/’,’figurine’ che potrebbero essere umane, benchè divenute minori o insignificanti.
Certo, oggi, a differenza di quanto figurato in altri secoli, non troviamo niente di umano da esaltare trionfalmente o esibire trionfalisticamente. Ad essere sinceri, tutto oggi appare assai più inquietante. E, forse, un altro dato che emerge da queste foto-grafie riguarda la realtà stessa della ‘luce’, che non va intesa fisicamente come quel bianco che contiene in sé tutti i colori, ma psicologicamente. In queste opere essa rimane scritta come concettualmente ‘grigia’. Un messaggio? Un’indicazione di psicologico habitat (che può essere o non essere quello del fotografo/artista, ma di molti uomini di cui è contemporaneo)? O il tutto diviene un gioco surreale di puro divertissement artistico, per mostrare dove possa arrivare la personale incisività (si tratta pur sempre di ‘incisioni’) creativa?
Ma torniamo ai protagonisti di questa mostra, e consideriamo le ‘lettere’ di questo improbabile alfabeto: non uniformi, ma disposte con una libertà che le vuole alcune diritte, altre oblique, altre in precario equilibrio. E, soprattutto, slegate, ciascuna come monade rinchiusa in sé e non disposta a legarsi con altre a formare parole di senso. Prendiamo ora queste ‘Figurine’ umane, divenute ombre e prendiamo nota di come anch’esse non entrino né in rapporto né in conflitto (anche questo è in-quietante) con le Lettere e con le possibili combinazioni di questo Alfabeto. Forse anche nella nostra contemporaneità sta accadendo qualcosa di simile tra l’uomo e la parola: tra significanti senza significato e significati (soprattutto spirituali) senza un significate che li faccia presenti. Ma, prendendo questa strada potremmo trovarci lontani dal luogo in cui ci troviamo, che è una Mostra di Arte Fotografica. Che, come tale, ci mostra il prodotto di una mente curiosa della propria interiorità, della propria ‘anima’, che non produce emozioni, sentimenti e passioni, ma delle fictio figuranti un generale stato d’animo, che vuole dirsi secondo questo ‘alfabeticare’.
Il ‘dove’, il ‘luogononluogo’ appare asettico; ma di cosa diviene espressione? Ci chiediamo: di una u-topìa, di una dis-topìa, di una a-topìa?
Se per Dante la I era il primo nome dato dall’uomo a Dio, quel Dio che tiene gli spiriti a li ubi (Pd.XXVIII;95), per Tedeschi la I è una lettera come le altre, situata in un ‘dove’ che diviene LUOGHI NON LUOGHI; perciò, a nostra scelta, un’utopia, una distopìa, un’atopìa. Ma ci chiediamo se quanto detto, e in questo modo, sia giustificato e giustificabile, posto in questo enigmatico scenario.
Continuiamo. Tra gli obbliganti riferimenti concettuali vediamo un ‘muro’, una babelica ‘torre’, una ‘spiaggia/deserto’, un ‘albero’ nel deserto, tre ‘sfere’ surreali, degli infruttiferi ‘stecchi’, un’aerea ‘gabbia’, i resti dell”uovo cosmico’, e così via.
Siamo invitati ad interrogarci, a cercare di decodificare tutto questo, districando questioni che chiedono il filo d’Arianna per uscirne. E subito potremmo dire molto su ciascuna di queste simbologie, ma qui non è dato lo spazio per iniziare questo ben interessante lavoro su ciascuna figurazione.
Si potrebbe anche insistere, interrogandoci sulle ragioni del titolo “LUOGHI NON LUOGHI”, riferendolo a quei luoghi-non-luoghi in cui noi oggi siamo costretti a vivere, finendo per chiederci se tutto questo ci vada portando dentro o fuori della Storia. E’ anche da questo punto di vista che la mostra di Tedeschi può essere intesa come ‘storica’, mostrando a noi i segni di una ben riconoscibile, e per certi aspetti inquietante contemporaneità.
Vittorio Cozzoli